Psicoterapia o farmaci?

Psicoterapia o farmaci?

Quando si presenta un disturbo depressivo le possibilità terapeutiche sono tre: assumere un farmaco, iniziare una psicoterapia o scegliere entrambe le cose.

La decisione dipende spesso da quale figura si consulta: in linea di massima se si tratta del medico di base (o di un medico in generale) è molto più probabile ricevere una terapia farmacologica, mentre se ci si rivolge ad uno psicologo è certo che, a parte casi particolari, si imboccherà la strada della psicoterapia.

Mentre rivolgendosi ad un medico è meno probabile ricevere indicazioni sulla possibilità di effettuare una terapia integrata (farmaci+psicoterapia), rivolgendosi ad uno psicologo si può ricevere il suggerimento di accompagnare alla psicoterapia l’assunzione di una farmaco prescritto dal medico specialista, lo psichiatra.

Quale intervento fra questi è il più efficace?

Cosa suggeriscono le evidenze scientifiche?
L’argomento è spinoso e dibattuto e risente sia di influenze culturalidi vario genere (idea che la depressione dipenda da squilibri chimici che in realtà ne sono solo la conseguenza; fede cieca nella Scienza e ottimismo esagerato per le possibilità della Chimica), sia degli interessi economici che risiedono all’interno del mercato dei farmaci, che non sono altro che prodotti come tutti gli altri e devono quindi essere collocati sul mercato e poi venduti.
Basti pensare che le ricerche sull’efficacia dei farmaci sono finanziate dalle stesse case produttrici per rendersi conto di come possa mancare la totale obiettività sull’argomento e per non meravigliarsi nell’apprendere che le uniche ricerche pubblicate sono quelle a sostegno dell’utilizzo (e quindi della vendita) di un certo farmaco. Lo stesso avverrebbe per qualunque altro prodotto sul mercato che è stato sviluppato investendo somme ingenti, come avviene per la ricerca farmacologica.
Gli Autori dell’articolo  “Selective publication of antidepressant trials and its influence on apparent efficacy”, pubblicato sul prestigioso New England Journal of Medicine, affermano questo:

“Alterando l’apparente rapporto rischi-benefici dei farmaci, la pubblicazione selettiva (solo degli studi positivi) può portare i medici a fare prescrizioni inappropriate che possono non avvenire nel miglior interesse dei loro pazienti e, quindi, della salute pubblica”.

Nel 2002 però è stata pubblicata su PlosONE una meta-analisi dei dati presentati alla FDA (Initial severity and antidepressant benefits: A meta-analysis of data submitted to the Food and Drug Administration), e non solo quindi di quelli poi pubblicati sulle riviste scientifiche, per stimare la reale portata dei risultati degli studi clinici (trials) sugli psicofarmaci.
I risultati, nelle parole del dr. Migone, autore di “Farmaci antidepressivi nella pratica psichiatrica: l’efficacia reale”, sono questi:
“dei 74 studi registrati dall’FDA, ben il 31% (3.449 pazienti) non sono stati pubblicati; gli studi che avevano riportato risultati negativi o dubbi, tranne 3 eccezioni, non furono pubblicati (22 studi) o furono pubblicati in un modo che li faceva passare come positivi (11 studi), mentre secondo la letteratura pubblicata risulta che il 94% degli studi sono positivi, contro l’analisi dei dati dell’FDA che mostra che i positivi sono solo il 51%. Questa distorsione ha comportato un aumento della “dimensione del risultato” dei farmaci in media del 32% (da 11% a 69% secondo i singoli farmaci).”

I dati dei vari studi permettono di affermare che l’effetto placebo (e cioè l’autosuggestione) è responsabile della maggior parte degli effetti positivi degli antidepressivi e pare che il loro effetto reale assuma una significatività solo nei casi di depressione grave, come concluso da una meta-analisi pubblicata su JAMA –  Journal of American Medical Association(“Antidepressant drug effects and depression severity”). Nei casi di depressione non grave l’effetto del farmaco si discosterebbe solo minimamente dall’effetto ottenuto somministrando un placebo (sostanza farmacologicamente inattiva).

Abbiamo quindi visto che gli antidepressivi non si differenziano significativamente dai placebo e che hanno scarsi effetti se non somministrati a depressi gravi, che traggono beneficio dal loro effetto attivante: il rapporto costi-benefici deve essere attentamente valutato quando un paziente può ricorrere ad altre terapie, evitando così gli effetti collaterali che possono far peggiorare la sua esistenza (dal calo del desiderio sessuale all’aumento di peso).


Psicofarmaci o psicoterapia?

Gli studi che hanno comparato l’efficacia degli antidepressivi all’efficacia della psicoterapia hanno determinato che la psicoterapia ha effetti positivi nettamente superiori ai farmaci antidepressivi, a partire da un’importante meta-analisi del 1993:“The treatment of Major Depressive Disorders” analizza gli effetti dei due trattamenti su pazienti depressi seguiti ambulatorialmente, dimostrando che il 58% dei pazienti trattati solo con la psicoterapia migliorava contro il 46% dei pazienti che avevano solo assunto psicofarmaci. Combinando antidepressivi e psicoterapia la percentuale di successo saliva al 64%.

Le stesse conclusioni sono riportate anche nel “Bergin and Garfield’s handbook of psychotherapy and behavior change” (ultima edizione: 2013).
Perchè assistiamo all’aumento esponenziale di prescrizioni di antidepressivi se in realtà la loro efficacia è così scarsa e gli effetti collaterali non certo trascurabili (per non parlare dei farmaci periodicamente ritirati dal mercato per la loro dannosità inizialmente sottostimata)?
Assumere un farmaco è apparentemente la strada più semplice per “guarire” quando si sta male. Questo ci viene insegnato fin da bambini, quando anche per un banale mal di gola arriva la prescrizione di antibiotici e ad ogni altro malanno o malattia riceviamo una serie di farmaci non sempre indispensabili.
All’interno di questo clima culturale è ovvio aspettarsi che anche per i disagi psichici il ricorso alla “pillola magica” sia così diffuso: quando si parla di depressione, tuttavia, non si parla di una malattia “fisica”, ma psicologica, che non può essere adeguatamente affrontata se non con una psicoterapia.

Lo conferma indirettamente anche il fatto che l’alternativa alla psicoterapia, gli psicofarmaci,in realtà funziona proprio per motivi psicologici e non farmacologici, dal momento che gli studi dimostrano che l’effetto placebo (e quindi l’attivazione delle risorse dell’organismo) è responsabile del miglioramento che possiamo vedere dopo l’assunzione di un antidepressivo.
Sulla carta la psicoterapia è la scelta più sicura da tutti i punti di vista, ma anche purtroppo la più costosa: il Servizio Sanitario non si può permettere di sovvenzionare la psicoterapia per tutte le persone che ne avrebbero bisogno e ricorrere ad un professionista privato rappresenta un impegno economico a volte non indifferente.

Anche stare male però ha un costo, così come costano le visite e i farmaci (dai quali si può sviluppare dipendenza, diventando pazienti cronici) e comportano dei costi anche i possibili effetti collaterali che determinano, in termini psicologici, sociali e relazionali (basti pensare al calo drastico della libido o all’obesità).Anche il rischio di successive ricadute non è da sottostimare ed è più importante quando un paziente ha solo assunto farmaci e non ha effettuato anche (o solo) una psicoterapia.

Prima di decidere quale strada terapeutica intraprendere bisogna quindi soppesare attentamente tutti questi aspetti e chiarire a sè stessi quali sono le proprie priorità, a cosa si vuole dare importanza e a cosa no, quali rischi si è disposti a correre. 


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