La figlia di Olaf, un affermato uomo d’affari olandese, aveva appena partorito una bambina, e lui non stava più nella pelle dalla voglia di conoscere la prima nipotina. Eppure un ostacolo insormontabile si opponeva alla realizzazione del suo desiderio: la paura del volo, che gli rendeva impossibile attraversare l’Atlantico per raggiungere sua figlia, che aveva sposato un americano.
Già un anno prima questa paura gli aveva impedito di presenziare alle nozze. Si era recato all’aeroporto con sua moglie ma, nonostante la notevole quantità di alcolici assunta per farsi coraggio, al momento di salire a bordo era stato colto da un attacco di panico che lo aveva costretto a restare a terra. Olaf faceva risalire la sua paura di volare a un’esperienza traumatica che aveva vissuto tre anni prima, quando si era trovato su un aereo costretto all’atterraggio nel mezzo di una bufera. Dopo un anno ci aveva riprovato, ma quello, che era stato l’ultimo volo della sua vita, era stato un disastro: aveva pianto per tutta la durata del viaggio, in particolare nelle fasi di decollo e atterraggio. Da quel giorno il solo pensiero di salire su un aereo, o anche semplicemente di avvicinarsi a un aeroporto, gli procurava un’ansia intollerabile e aveva abbandonato definitivamente l’idea di volare, rinunciando per questo anche a un avanzamento di carriera, che avrebbe comportato la necessità di frequenti viaggi internazionali.
Organizzazione fobica
Quando si presentò da Katharina Meyerbröker, psicologa dell’Università di Amsterdam, Olaf era triste, e rimuginava sulla sua condizione, che gli imponeva rinunce così pesanti. Questo sentimento non sembrava, però, sfociare in un conclamato disturbo depressivo maggiore: mancavano, infatti, tutti i correlati neurovegetativi della depressiodi ne, come i disturbi del sonno, dell’appetito,
dell’energia vitale, e il peggioramento mattutino della sintomatologia. È vero, beveva qualche bicchiere in più la sera, «per rilassarsi», ma negava sintomi di astinenza o problemi legati all’uso di alcolici, nonostante sua moglie non fosse dello stesso avviso. In famiglia non c’era mai stato nessun problema di tipo psichiatrico, aggiungeva, e lui stesso non aveva mai sofferto di alcuna forma d’ansia: bastava pensare all’opinione che avevano di lui i suoi colleghi, che lo consideravano energico e vincente, capace di rivolgersi senza alcuna timidezza anche a un vasto uditorio.
ppure, indagando a fondo, Meyerbröker riuscì a scoprire che un’altra paura turbava la tranquillità del suo paziente: quella degli animali. Sin da bambino Olaf aveva avuto il terrore degli animali selvatici, tanto che si era sempre rifiutato di partecipare alle gite in campagna con la famiglia, e si teneva lontano persino dalle passeggiate nei parchi. Da adulto aveva sempre vissuto in un ambiente cittadino, e per le vacanze era solito scegliere altre grandi città, che raggiungeva ovviamente in treno. Non aveva mai realizzato pienamente che queste sue preferenze fossero fossero la conseguenza di una particolare configurazione psicologica: semplicemente, aveva sempre detto di non amare la campagna e di trovare più interessanti le città. Per la psicologa il quadro clinico presentato da Olaf non offriva particolari difficoltà da un punto di vista diagnostico. Il paziente soffriva di fobie specifiche, per gli animali e per una determinata situazione, il volo in aereo, abbastanza comune tra le situazioni che scatenano fobie, come gli ascensori o gli spazi chiusi in generale.
Gli stimoli fobici possono essere molteplici: elementi naturali come l’altitudine o le tempeste, la vista del sangue o degli aghi, procedure mediche, rumori, persone in maschera. Il fatto che anche stimoli molto diversi fra loro possano scatenare una reazione fobica non è infrequente tra i pazienti predisposti: in questi casi gli psicologi cognitivisti parlano di «organizzazione fobica della personalità». Nelle persone predisposte allo sviluppo di fobie si riscontra più di frequente una storia infantile in cui veniva inibita dai genitori l’esplorazione autonoma del mondo, vissuto come minaccioso per l’integrità fisica del bambino, percepito come debole e bisognoso di protezione. In questi casi la necessità di conoscere il mondo entra in conflitto con il bisogno di protezione. I genitori sono solitamente ansiosi, controllanti e iperprotettivi; talvolta piangono o minacciano di abbandonare il bambino in risposta alle sue iniziative autonome; tendono a manifestare preoccupazione più che amore, e sono focalizzati sulle cure fisiche e sul timore di malattie mortali, cosa che accresce l’attenzione dei pazienti fobici alle loro sensazioni corporee. Il disagio conseguente alle fobie non si esaurisce nelle limitazioni coscienti che esse impongono ai pazienti: molte decisioni importanti possono essere influenzate da queste paure inconsce. I disturbi fobici sono spesso accompagnati da altri problemi psicologici o psichiatrici, che possono scaturire dalla stessa situazione di vulnerabilità all’origine della fobia o esserne una conseguenza: ansia, depressione, abuso di sostanze, somatizzazioni e disturbi di personalità.
Esposizione graduale
Ma come si può affrontare praticamente la paura del volo? Uno degli approcci che si sono dimostrati più efficaci è quello basato sulla realtà virtuale, che aiuta i pazienti a cimentarsi con la situazione temuta senza cor- rere alcun rischio reale. Esporre gradualmente la persona fobica allo stimolo scatenante è una classica tecnica terapeutica comportamentale, che aiuta il paziente a «familiarizzare » progressivamente con l’oggetto della sua fobia in una situazione immaginaria, aumentando la sua sicurezza e la sua capacità di correre un rischio controllato. Le simulazioni al computer offrono il vantaggio di poter essere gestite facilmente all’interno dello studio del terapeuta e possono avere un effetto molto rassicurante per i pazienti. Una revisione quarantennale degli studi clinici sull’uso della realtà virtuale nella fobia del volo, realizzata dagli psichiatri del Laboratorio per il panico dell’Università federale di Rio de Janeiro, ha confermato l’elevata efficacia di questo metodo, ancora più incisivo quando associato alla psicoterapia cognitivocomportamentale, a tecniche di rilassamento e a una corretta informazione sul volo. La psicologa americana Brenda Wiederhold, direttrice del Virtual Reality Medical Center – un’associazione medica che opera in California, con ambulatori a San Diego e Los Angeles, e che ha una sede anche a Milano – ha usato con successo la realtà virtuale, in associazione alla terapia cognitivo-comportamentale, non solo nella fobia dell’aereo, ma anche in altre situazioni cliniche: paura della guida in sopravvissuti a incidenti stradali gravi, fobia sociale, fobia dell’altezza, claustrofobia, fobia dei ragni, ipocondria, attacchi di panico con agorafobia.
Più efficace della fantasia
La realtà virtuale accorcia e facilita il percorso della terapia cognitivo-comportamentale perché non rende necessaria un’esposizione reale allo stimolo fobico e supplisce anche all’eventuale mancanza d’immaginazione di quei pazienti che non riescono a «vedersi » con la fantasia nella situazione temuta. Per lo stesso motivo è di particolare efficacia con i pazienti anziani, la cui capacità immaginativa è in genere meno vivida: lo psicologo canadese Sébastien Grenier, ricercatore presso l’Istituto universitario di geriatria di Montréal, ha sottolineato l’utilità dell’associazione tra psicoterapia ed esposizione virtuale nel trattamento dell’ansia in età avanzata. Inoltre gli effetti sembrano essere più duraturi: lo psicologo Mar Rus-Calafell, dell’Università di Barcellona, ha riscontrato a sei mesi di distanza una continua diminuzione dell’ansia in pazienti trattati con la realtà vir- l’instaurartuale rispetto a quelli che erano stati esposti alla situazione di volo solo con l’immaginazione, nel contesto di una psicoterapia. Non è necessario che la ricostruzione al computer sia perfettamente realistica: anzi, secondo alcuni l’uso di scenari da cartone animato è più efficace proprio perché spinge i pazienti a impegnarsi in un maggiore sforzo immaginativo. La simulazione virtuale può essere di aiuto sulla componente ansioso-fobica di disturbi di varia natura, aiutando a gestirli con maggiore padronanza: è il caso dei disturbi dell’alimentazione, dell’astinenza da fumo, del dolore da ustione e degli effetti collaterali della chemioterapia. Percorsi terapeutici che comprendono sessioni di realtà virtuale sono spesso organizzati anche dalle compagnie aeree; per esempio l’Alitalia ha dato vita nel 1997 al programma «Voglia di volare», ai cui seminari hanno partecipato migliaia di persone, con un elevato tasso di successi.
Le sensazioni che le persone con fobia del volo riferiscono più spesso sono il disagio per non poter controllare ciò che succede e l’ansia legata al sentirsi intrappolati, coerentemente con i temi dominanti nella struttura di personalità delle persone predisposte allo sviluppo di fobie: la necessità di controllo e la sensazione di costrizione, legate a esperienze infantili di accudimento ansioso. Genitori iperprotettivi, ma anche esperienze di perdita, separazione e abuso emotivo, possono agire come fattori di rischio per l’instaurar si delle fobie, che da un punto di vista psicodinamico possono essere interpretate come una strategia per far fronte a un’angoscia che, se lasciata libera di fluttuare, sarebbe molto più difficile da gestire: incanalarla in una situazione specifica permette di tenerla sotto controllo semplicemente evitandola o, come accade nelle «condotte controfobiche», sfidandola cimentandosi ripetutamente proprio nella situazione temuta. Anche l’aumentata attenzione agli stimoli viscerali (consapevolezza interocettiva), tipica dei pazienti fobici, ha un ruolo di primo piano nel disagio in aereo: la psicologa belga Anouk Vanden Bogaerde, dell’Università di Gand, ha documentato in soggetti con paura di volare una sensibilità maggiore della norma ai segnali di difficoltà respiratoria I pazienti predisposti alle fobie tendono a distrarsi con difficoltà dagli stimoli corporei, ad allarmarsi facilmente in risposta alle sensazioni fisiche e a polarizzarsi su di esse, non mettendole in relazione con stati emotivi.
Un disagio diffuso
Sebbene all’incirca la metà dei passeggeri possa riportare qualche sintomo d’ansia legato al volo, la paura di volare può colpire tra il 2 e il 3 per cento dei viaggiatori; tra questi, la metà può giungere anche a cancellare una prenotazione a causa dell’ansia intensa. Nella popolazione generale, che comprende anche chi rinuncia a intraprendere viaggi in aereo, il tasso di prevalenza della fobia del volo può arrivare al cinque per cento. Le donne, soprattutto se madri, sono più colpite degli uomini; va detto, però, che oltre a soffrire più di frequente di acrofobia (paura dell’altezza), le donne tendono ad ammettere le loro paura più sinceramente degli uomini. Lo psichiatra norvegese Øivind Ekeberg, dell’Università di Oslo, ha osservato che le risposte delle donne ai questionari sulla paura di volare somministrati in aereo sono sovrapponibili a quelle fornite da terra, mentre gli uomini tendono a «ricordarsi» della paura solo quando sono a bordo. Le donne appaiono anche meno fiduciose nell’operato delle compagnie aeree e dei lavoratori aeroportuali relativamente alla sicurezza.
Chi soffre di fobia del volo tende a sopravvalutare il rischio di incidenti mortali (che è meno di uno ogni due milioni di voli), e la percentuale di vittime in caso di incidente (che è mediamente del 50 per cento dei passeggeri). Secondo i risultati di un’indagine condotta da Ekeberg su 600 passeggeri di 15 voli diversi, le situazioni che tendono a destare più preoccupazione sono le turbolenze, seguite da atti di terrorismo, dirottamenti, collisioni e problemi al motore. Le donne tendono più degli uomini a essere spaventate dai rumori non identificati. L’impatto degli eventi terroristici, come gli attentati dell’11 settembre 2001, non sembra aver modificato l’incidenza della fobia del volo: nonostante il fatto che nello studio di Ekeberg molti dei soggetti intervistati dichiarino di essere preoccupati di possibili atti di terrorismo, la paura dell’ae- reo non appare oggi più diffusa di quanto non fosse negli anni ottanta, quando tra l’altro il numero dei voli era minore. Il momento più temuto è il decollo, soprattutto per le persone con elevati livelli di ansia di base, che mantengono una reattività fisiologica aumentata anche se hanno superato la paura da un punto di vista psicologico: nonostante l’efficacia dei trattamenti cognitivocomportamentali la frequenza cardiaca dei soggetti ansiosi nella fase di decollo tende a essere più elevata all’incirca del 35 per cento rispetto ai soggetti di controllo, e le persone la cui frequenza cardiaca tende a normalizzarsi più facilmente durante le sessioni di realtà virtuale sono quelle che superano prima la fobia del volo, richiedendo un minor numero di sedute. Questo confermerebbe la presenza di una predisposizione psicofisiologica alla paura di volare, che spesso non trae origine da esperienze spiacevoli in aereo (non tutti coloro che si sono trovati a fronteggiare inconvenienti in volo vanno incontro alla fobia), ma da ansie preesistenti, che scaturiscono più dalla storia psicologica individuale che da eventi vissuti.
Anche altre variabili possono influenzare il livello di vulnerabilità personale alla fobia: l’infettivologo Robert Colebunders, docente all’Istituto di medicina tropicale di Anversa, ha riportato il caso di una paziente che ha sviluppato la paura di volare a causa di una terapia profilattica con farmaci antimalarici, effettuata prima di intraprendere un viaggio per un paese dove la malaria è endemica. Molte persone con fobia del volo riferiscono di aver avuto per anni un disagio o una paura che, con il tempo, è peggiorata fino a diventare insuperabile. In questi casi, come accade spesso nei disturbi fobici, si instaura una «paura della paura», a causa della quale i pazienti, più che temere realmente l’eventualità che si verifichi un incidente aereo, non osano esporsi alla situazione fobica perché pensano di non poterla sopportare. Un trattamento psicologico tempestivo può impedire la cronicizzazione dell’ansia e di una fobia che, pur non essendo grave dal punto di vista psichiatrico, può precludere piacevoli esperienze di viaggio e interessanti opportunità lavorative ed esistenziali.